Bisogna saper perdere by Filippo Maria Battaglia e Paolo Volterra

Bisogna saper perdere by Filippo Maria Battaglia e Paolo Volterra

autore:Filippo Maria Battaglia e Paolo Volterra
La lingua: ita
Format: epub
editore: Bollati Boringhieri editore
pubblicato: 2016-08-04T16:00:00+00:00


Gli amari sfoghi del comandante «Achel»

Quei giorni amari per i socialisti coincidono con la depressione politica ed esistenziale di Achille Occhetto. Il segretario del Pds ha appena guidato la coalizione dei Progressisti («la gioiosa macchina da guerra») alla sconfitta contro il Polo delle Libertà e del Buongoverno di Silvio Berlusconi nelle elezioni politiche di marzo, le prime con un sistema semi-maggioritario uninominale. Il comandante «Achel» ora fatica a difendersi dagli avversari interni, dalla fronda, dal fuoco amico. Che nella ricostruzione occhettiana assume inevitabilmente le fattezze di Massimo D’Alema.

Lo stesso 5 maggio in cui Bettino Craxi lascia per sempre il suolo italiano, «L’Unità» diretta da Walter Veltroni dedica una paginata intera a un’intervista-sfogo di Occhetto. «Finché sono segretario, lo sono a tutti gli effetti», manda a dire a chi già all’indomani del voto gli chiede di farsi da parte. C’è chi lo dice sottovoce nei sussurri di Botteghe Oscure, c’è chi può permettersi di farlo con parole più nette: intellettuali contigui come Michele Salvati o Massimo Cacciari. A tutti risponde così: «Se si vuole risolvere il problema del segretario in termini di turn over, lo si dica apertamente e dopo le europee non avrei in tal caso nessuna remora a farmi da parte…».

Poi parla di «approfondimento programmatico», di «maggiore spregiudicatezza», di «massimo rinnovamento». Nella sua «metafisica della loquacità» Occhetto sembra dire: se qualcuno vuole prendere il mio posto, che si candidi apertamente e lo faccia a viso aperto, soprattutto se quel qualcuno è D’Alema.

Le distanze tattiche e caratteriali fra Achille e Massimo sconfinano spesso dalle categorie algide della politica a quelle più fiammeggianti della psicologia o dello scontro di personalità. Ma fra i due, in passato, si era consumata un’intesa che aveva avuto il suo culmine nel presunto «patto del garage» per la successione a Enrico Berlinguer: una sorta di intesa generazionale siglata nel parcheggio del palazzo di Botteghe Oscure il pomeriggio del 13 giugno 1984, appena conclusi i funerali del leader scomparso; un accordo a due per rinnovare i vertici del Pci, saltando i vecchi dirigenti come Alessandro Natta, segretario designato (lo racconta, ad esempio, Miriam Mafai). Entrambi i contraenti negano qualsiasi patto e Occhetto lo derubrica a «fandonia». Sta di fatto che quando quattro anni dopo, nella primavera del 1988, lo stesso Natta è colpito da un infarto poco prima di un comizio in Umbria, D’Alema e altri dirigenti si affrettano a chiedere un cambio rapido alla guida del partito. Natta si dimette, con una lettera pubblica in cui chiede di «tornare a fare il semplice frate» e con un’altra lettera – non divulgabile – in cui dà voce all’amarezza per la slealtà di chi si accinge a prendere il suo posto. Cioè Achille Occhetto.

La svolta, il cambio del nome, la scissione, i risultati deludenti del voto del 1992, Tangentopoli, l’appoggio a Segni per i referendum, i governi Amato e Ciampi: su quasi tutte le vicende che seguiranno, invece, il patto presunto scricchiola e si sfarina. Le divergenze fra i due diarchi del Pci-Pds si rivelano sempre più profonde, anche se mai portate alla luce del sole.



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